di Luigi Mangia –

Con un tratto di penna, il presidente Donald Trump, ha cancellato lo “ius soli” ed il mondo intero ha visto gli immigrati in catene in aereo, espulsi e mandati nel nolo paese d’origine: il Guatemala. Il confine può essere una barriera naturale: un fiume, un mare, le montagne, un deserto oppure una linea artificiale stabilita dalla politica, fatta di alte mura in cemento da chilometri di filo spinato, da ponti o boschi, è questa la frontiera. Il tema del confine è tornato ad occupare l’immaginario contemporaneo e nel nostro tempo sta assumendo configurazioni inattese e preoccupanti. Una riflessione su come declinare il concetto di confine secondo la nuova destra per come saranno trattate: le acque, il clima, i minerali, le terre rare e lo spazio, come il vero campo di guerra è stato proposto dallo studioso Klaus Dodds, docente presso la Royal Dalloway University di Londra. La proposta di una nuova geografia politica dello studioso Klaus Dodds è molto interessante non solo perché indica le nuove cause delle guerre ma più ancora perché propone un nuovo modo di vedere la nuova scienza geografica.
Abbiamo considerato, e forse lo facciamo ancora, sinonimi il confine e la frontiera che al contrario sono diversi e regolano i rapporti fra i popoli. La frontiera, infatti, è fissata dalla volontà politica e comprende la lingua, la religione, i costumi, le tradizioni e la razza. La frontiera è chiusa e rifiuta la mobilità, respinge il diverso. Il ritorno della nuova destra fa della difesa della frontiera la bandiera della sua guerra contro la razza e individua nello straniero il nemico da cui difendersi. L’arma più usata è quella della paura, la quale mette in pericolo la sicurezza sociale economica e culturale, rendendo difficile la vita nelle città. La difesa della frontiera si ottiene facendo guerra al diverso eliminandolo dalle città. Quella che stiamo vivendo è una crisi profonda perché nega e rifiuta la civiltà dei lumi ed in particolare mette in discussione la carta dei diritti internazionali che sono alla base della geografia politica nata dopo la Seconda guerra mondiale. È il mondo della cultura quello che si deve svegliare, che deve trovare le vie per sconfiggere le paure che inquietano la vita e portano la solitudine come barriera della mente, incapace di vedere la felicità del vivere.
Serve promuovere una grande architettura culturale, aperta senza frontiere, serve una grande alleanza fra potere e intellettuali, fra artisti e politica per guarire le classi sociali dalla paura ed educarle a trovare una vita sociale aperta al diverso, alla convivialità delle differenze. Non è un semplice esercizio di utopia ma un disegno di geografia politica e sociale urgente da realizzare se vogliamo davvero pensare un futuro diverso.

Luigi Mangia