di Vittorino Curci –

FESTA DELLA POESIA “LORENZO CALOGERO”
Melicuccà (RC), 10 agosto 2024

Leggo e rileggo Calogero da circa mezzo secolo, più o meno dalla metà degli anni ’70, quando per puro caso mi capitò di comprare nella libreria Remainders di piazza San Silvestro a Roma il primo volume delle “Opere poetiche” pubblicato da Lerici nel 1962. Rimasi davvero sconcertato dai cortocircuiti lessicali e sintattici di quella poesia. Avevo poco più di vent’anni e fu veramente un’impresa per me accostarmi a quella poesia atonale e spesso inintelligibile, a quei versi travolgenti e compulsivi, a quell’io poetico depersonalizzato e arreso a una lingua priva di ogni funzione referenziale, a quel poeta solitario, sofferente e smarrito che si illudeva di trovare nella poesia “un surrogato di felicità”. Ancora oggi, dopo molti anni, mi si stringe il cuore quando leggo parole come queste: “Nella poesia trovo le origini della pace e della calma / dopo che conosco lei non voglio conoscere più nessuno”.

Lorenzo Calogero mi ha insegnato molte cose. La prima è che i grandi poeti sono coraggiosi e imprevedibili. In loro ogni parola porta in sé l’incanto della sua origine. Ed è questo il motivo per cui i grandi poeti come lui ci strappano da tutto ciò che è abituale e scontato, ci mettono in crisi, ci dislocano, ci destabilizzano (vivaddio anche questa è vita!), ci fanno vedere le cose da un’altro punto di vista. È cosi che ci conquistano, e con le loro parole ci consentono di fare un viaggio in una terra sconosciuta nella quale non ci sentiamo stranieri. Sembra un paradosso, ma non lo è perché questa terra sconosciuta siamo noi, e il viaggio che compiamo attraversa le esperienze (piccole e grandi) che hanno lasciato un segno nelle nostre vite. Questo viaggio si svolge in silenzio perché è privo di parole. Non può averle. Le parole sono il punto di arrivo. Penso a versi come: “Se io dimentico erano cose nuove”; “Volentieri segni ascolto, ripidi, / quando pioveva”; “Questo è quanto mi rimane / di un meraviglioso avvenire passato”.

Nella poesia di Lorenzo Calogero il linguaggio ordinario, pressato da una forza visionaria ineguagliabile, è messo alle strette. Ma lo è anche il canone della nostra tradizione poetica. È più o meno questo il senso delle parole di Ungaretti quando disse che Calogero “ci ha diminuiti tutti”. Aveva ragione. E non mi faccio problemi oggi nel dire che più sono grandi, i poeti, più grandi sono le responsabilità che si assumono verso gli altri (fino al punto di non essere capiti) e soprattutto verso se stessi. Nessuna meraviglia quindi se sono altrettanto grandi i prezzi che vanno a pagare nella vita. Ma a loro non importa perché non fanno questo tipo di calcoli. Loro per natura sono insubordinati, resistenti, sovversivi, e non ritengono di doversi giustificarsi con nessuno, gli basta il loro tribunale interiore. E non è un caso che spesso, come nel caso di Calogero, di Celan, di Char, della Rosselli e di tanti altri poeti e poete che amiamo, essi utilizzino un linguaggio oscuro. Forse non c’è altro modo per minare dall’interno la lingua che abitiamo e scavallare l’insensatezza e l’urgenza a cui siamo condannati dalla nostra mortalità: “Ci levighiamo colla speranza sottile / di conoscere le cose a fondo, / di traghettare sulle nostre spalle / l’ombra della nostra morte / sull’altra riva”.

Vittorino Curci